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Che cosa si rischia a lavorare in nero?

Datori di lavoro ma anche lavoratori. Ci vanno tutti di mezzo quando si si scopre un’attività in nero. Le sanzioni sono sempre più pesanti sia per chi paga una persona senza contratto (e quindi risparmia su tasse e contributi) sia per chi si presta a fare qualsiasi cosa pur di portare qualche soldo a casa, a costo di non accumulare alcunché per la pensione o, in alcuni casi, di venire sfruttato. Vediamo, allora, a che cosa vanno incontro entrambi, cioè che cosa si rischia a lavorare in nero.

Lavoro in nero: che cosa rischia l’imprenditore

Il datore di lavoro è quello che ha più da perdere quando chiama qualcuno nella sua azienda per lavorare in nero. Rischia una sanzione da 1.500 a 36.000 euro, ridotta se, precedentemente, c’è stata una violazione regolarizzata.

Nello specifico, cosa rischia il datore di lavoro?

  • se ha impiegato un lavoratore in nero fino a 30 giorni, una sanzione da 1.500 a 9.000 euro;
  • se l’ha impiegato fra 31 e 60 giorni, una sanzione da 3.000 a 18.000 euro;
  • se ha fatto lavorare in nero qualcuno per più di 60 giorni, rischia una sanzione da 6.000 a 36.000 euro.

Il tutto con una maggiorazione che parte dal 20% nel caso in cui a lavorare in nero sia uno straniero o un minorenne. Le sanzioni non sono cumulabili con quelle per omessa comunicazione di assunzione, mancata consegna del contratto al lavoratore, ed omesse registrazioni sul Libro unico del lavoro.

Altra aggravante è quella di avere nell’organico più del 20% dei lavoratori in nero. In questo caso, il datore di lavoro rischia la sospensione dell’attività.

Se a lavorare in nero è un pensionato, che cosa rischia?

Non solo stranieri, minorenni o disoccupati: spesso anche i pensionati cercano di arrotondare l’assegno mensile dell’Inps con qualche lavoretto in nero. Sappiano, però, che se vengono scoperti potrebbero essere costretti a pagare all’Agenzia delle Entrate l’importo Irpef non versato. In pratica, il reddito percepito «sotto banco» viene aggiunto a quello della pensione e, sul totale, si calcola l’aliquota Irpef da pagare.

Peggio ancora se il pensionato ha un’attività propria in nero (un artigiano, ad esempio). Lavorando per altre aziende diventa colpevole di evasione totale. Così, oltre all’Agenzia delle Entrate, busserà alla sua porta anche l’Inps per i contributi non versati.

Lavoro in nero: che cosa rischia il lavoratore?

Per sapere che cosa rischia il lavoratore in nero, bisogna capire qual è stata la sua azione, diciamo così, «scorretta». Ad esempio, se risulta all’Inps o al Centro per l’impiego come disoccupato ma, in realtà, lavora in nero può essere accusato di reato di falsa dichiarazione, ovvero di falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico

Che cosa rischia? La reclusione fino a 2 anni.

Inoltre, se come finto disoccupato ha percepito l’indennità di disoccupazione o altri ammortizzatori sociali pagati dallo Stato, rischia la reclusione da 6 mesi a 3 anni. Ma se ha percepito in questo modo meno di 3.999,96 euro dovrà pagare «solo» una sanzione amministrativa compresa tra 5.164 e 25.822 euro . Il limite massimo della sanzione è il triplo di quello che ha incassato come disoccupato pur svolgendo un lavoro in nero.

Ma c’è di più. Per chi ha avuto degli ammortizzatori sociali e, nel frattempo, abbia svolto un’attività in nero è prevista la decadenza del beneficio: niente più disoccupazione, mobilità o quant’altro. Oltretutto l’Inps (oppure l’Ente che abbia erogato la prestazione) si può riservare il diritto di chiedere al lavoratore la restituzione delle somme pagate ed il risarcimento del danno.

C’è, però, un caso in cui il lavoratore in nero non rischia nulla. Succede quando, nel momento in cui viene accertato il suo rapporto di lavoro, sia dimostrato che non percepisce alcuna indennità di disoccupazione o non beneficia di alcun ammortizzatore sociale. A questo punto, chi lavora in nero non solo non rischia alcunché ma addirittura potrebbe guadagnarci: la sua posizione potrebbe essere regolarizzata una volta che saranno verificati i suoi crediti di lavoro. La patata bollente passerebbe, dunque, al datore di lavoro.